Colangiocarcinoma extraepatico (tumore di Klatskin)

Colangiocarcinoma extraepatico (tumore di Klatskin)

Colangiocarcinoma

Il colangiocarcinoma è un tumore maligno che origina dalla trasformazione delle cellule delle vie biliari, cioè i canalicoli che trasportano la bile prodotta dal fegato all’intestino, e rappresenta circa il 20% di tutti i tumori primitivi del fegato.

Esiste una prevalenza nel sesso maschile, con un picco di incidenza attorno alla settima decade di vita. Il dotto cistico, proveniente dalla cistifellea, si unisce al condotto epatico formando il dotto biliare che, unitamente al dotto pancreatico, riversa il proprio contenuto nell’intestino (duodeno) attraverso una valvola chiamata ampolla di Vater.

Il colangiocarcinoma può originare dalle cellule epiteliali dei dotti biliari, sia intraepatici che extraepatici, ad eccezione della colecisti e dell’ampolla di Vater. 

Può essere classificato a seconda della sua localizzazione anatomica lungo l’albero biliare in: 

  • Periferico o Intraepatico (CCI) che origina all’interno del fegato 
  • Extraepatico (CCE) che origina dalle vie biliari extraepatiche e a sua volta si distingue in :
    • Ilare o tumore di Klatskin che origina dalla confluenza delle vie biliari di destra o sinistra (carrefour biliare)
    • Distale che origina dalla porzione terminale della via biliare. 

Dal punto di vista istologico, ossia delle caratteristiche delle cellule che lo compongono, il colangiocarcinoma (extraepatico) può assumere diverse varianti: prevalentemente si tratta di un adenocarcinoma (papillare, mucinoso, a cellule chiare, tipo intestinale ecc), oppure di un carcinoma (a cellule squamose, indifferenziato, a piccole cellule ecc). In relazione al grado di differenziazione, ossia alla somiglianza o meno delle cellule tumorali a quelle dell’epitelio di origine, i tumori sono classificati in ben differenziati, mediamente differenziati e scarsamente differenziati o indifferenziati.
In Europa vengono diagnosticati ogni anno circa 50.000 nuovi casi di tumore di origine epatica e circa il 20% di questi è rappresentato dal colangiocarcinoma. Il tasso annuo di incidenza in Europa è circa 1,5 casi per 100.000 abitanti. La malattia è più frequente nei Paesi del sud-est asiatico, a causa dei differenti fattori di rischio ambientali, anche se negli ultimi anni il numero di nuovi casi sta aumentando anche in Occidente.

La maggior parte dei colangiocarcinomi origina senza evidenti fattori causali. Tuttavia, in una minoranza di casi, sono note delle condizioni, abitudini o esposizioni ambientali che aumentano la probabilità di sviluppare il tumore. I principali fattori di rischio identificati che hanno in comune un processo di infiammazione cronica delle strutture biliari (dovuto all’ostruzione del flusso della bile) sono: la colangite sclerosante primitiva; le malformazioni cistiche delle vie biliari (malattia di Caroli e cisti coledociche); le infestazioni parassitarie (Clonorchis sinensis, tipico nei Paesi orientali); la cirrosi epatica (dovuta spesso ad abuso di alcol oppure all’infezione dei virus dell’epatite B e C); esposizione ad agenti fisici e chimici come radon, asbesto, thorotrast, nitrosammine e diossina. 

Colangiocarcinoma

La crescita del colangiocarcinoma extraepatico determina un’ostruzione delle vie biliari e di conseguenza i segni e sintomi tipici che devono allarmare il paziente sono: l’ittero (colorazione giallastra di cute e sclere), il dolore, le feci poco colorate e cretacee e le urine di colore scuro.

Altri segni clinici comuni in caso di ostruzione biliare sono il prurito, l’aumento del volume del fegato, la perdita di peso e la febbre.

La diagnosi di tumore di Klatskin non risulta sempre semplice, specie quando vengono a mancare quelle manifestazioni tipiche (ittero, dolore, alterazione di feci e urine) che allarmano il paziente e lo inducono a rivolgersi al medico e a sottoporsi agli accertamenti del caso.

Nel sospetto di presenza di una neoplasia delle vie biliari occorre effettuare una serie di esami clinici, ematici (di laboratorio) e strumentali che consentano di giungere a una rapida e corretta diagnosi di conferma o di esclusione della malattia oncologica. Tra gli esami di laboratorio risulta utile il dosaggio della bilirubina, della fosfatasi alcalina, della glutamiltrasferasi, nonché dei marcatori tumorali CEA e soprattutto CA 19.9, i cui valori sembrano importanti anche per escludere residui di malattia dopo l’intervento chirurgico, per documentare un’iniziale ricomparsa della malattia o per valutare gli effetti delle terapie mediche. 

Le indagini strumentali che possono essere impiegate per effettuare la diagnosi sono: 

  • ecografia dell’addome (valuta i segni indiretti della malattia, tra cui la dilatazione delle vie biliari); 
  • TC (tomografia computerizzata); 
  • risonanza magnetica (RM) e colangio-RM (particolare forma di RM che permette di visualizzare tutte le vie biliari e il possibile ostacolo al deflusso della bile senza manovre invasive quali la colangiografia retrograda e la colangiografia percutanea);
  • ecoendoscopia e colangiografia retrograda o ERCP (Endoscopic Retrograde CholangioPancreatography), esami invasivi eseguiti come una normale gastroscopia, che non solo consente di visualizzare la via biliare principale, ma anche di effettuare manovre operative come il posizionamento di protesi; dal momento che è una manovra invasiva, può avere delle complicanze come la pancreatite;
  • colangiografia percutanea o PTC (Percutaneous Transhepatic Cholangiography), viene eseguita inserendo un catetere nelle vie biliari attraverso la parete addominale sotto guida radiologica, permettendo così la visualizzazione delle strutture biliari e il drenaggio della bile. Anche questa manovra può avere complicanze come la febbre, il dolore e l’emorragia;
  • laparoscopia diagnostica, si tratta di un intervento chirurgico fatto in anestesia generale che, utilizzando una sonda ottica, consente di esplorare gli organi interni, aiutando a escludere la presenza di metastasi che controindicano il trattamento chirurgico. 

La biopsia per via percutanea, endoscopica o chirurgica, non è generalmente indicata in quanto il numero di prelievi che risultano falsamente negativi (cioè che non riescono a documentare la presenza di cellule tumorali in un paziente affetto da colangiocarcinoma extraepatico) è molto elevato.

Di fatto quindi, in questo tipo di patologia, il sospetto diagnostico viene posto dalle metodiche di imaging e determina il successivo atteggiamento terapeutico, mentre l’esclusione certa della malignità della lesione (circa 5-7% dei casi) è fattibile solo con l’esame istologico definitivo eseguito sul pezzo operatorio. In questo modo si evita che pazienti affetti da colangiocarcinoma (pur in assenza di dato istologico preoperatorio) vengano trattati in modo non adeguato. 

La diagnosi e il trattamento del colangiocarcinoma ilare necessita un approccio multidisciplinare con l’intervento sinergico di chirurghi, gastroenterologi, radiologi, oncologi e radioterapisti. Attualmente l’unico trattamento potenzialmente curativo è costituito dalla resezione chirurgica del carrefour biliare associata all’asportazione della parte di fegato (destro o sinistro) coinvolto dalla malattia (che consente una migliore radicalità oncologica). Il vantaggio in termini di risultati a lungo termine dell’associazione di epatectomie maggiori (cioè resezioni epatiche con asportazione di 3 o più segmenti epatici) alla resezione del carrefour biliare, rispetto alla sola asportazione del carrefour o a resezioni epatiche minori è ormai ampiamente dimostrato in letteratura. La resezione epatica risulta infatti essere fondamentale per l’ottenimento di margini liberi da malattia (margini R0) che costituiscono uno dei principali fattori determinanti la sopravvivenza a lungo termine. Una chirurgia oncologicamente adeguata per il tumore di Klatskin deve quindi prevedere la resezione del carrefour biliare, la resezione epatica e la linfadenectomia locoregionale (cioè l’asportazione dei linfonodi vicini alla sede della neoplasia, a prescindere dal loro interessamento da parte della malattia).

Qualora il trattamento chirurgico non sia indicato al momento della diagnosi (circa il 70 % dei pazienti non è considerato resecabile alla diagnosi), il Paziente viene valutato per iniziare un programma di chemioterapia e/o radioterapia primario (a scopo palliativo o eventualmente neoadiuvante) e l’intervento chirurgico viene poi riconsiderato in base alla risposta al trattamento impostato.

Qualora la presenza in sede della neoplasia determini ittero ostruttivo, la sua gestione viene attuata attraverso il posizionamento di endoprotesi biliare mediante ERCP (quando questo risulta tecnicamente fattibile) o drenaggio percutaneo e viene eventualmente impostata una terapia di supporto (per esempio per la gestione del dolore cronico). 

Le caratteristiche stesse della malattia (modesto volume tumorale e ingente quantità di fegato da rimuovere; necessità di eseguire un’anastomosi biliare, cioè un collegamento tra la via biliare e l’intestino per ripristinare il regolare deflusso della bile) rendono ragione del tasso di morbidità postoperatoria (cioè il rischio di complicanze, stimato intorno al 40-50%) per i pazienti affetti da tumore di Klatskin. 

Presso la nostra Unità Operativa i pazienti con colangiocarcioma extraepatico prossimale (tumore di Klatskin) candidati a chirurgia vengono gestiti secondo un protocollo strutturato (definito di “ottimizzazione preoperatoria”) volto a gestire i sintomi preoperatori e a prevenire le complicanze postoperatorie. Si tratta di un percorso la cui attuazione sistematica ha dimostrato dei significativi vantaggi per il paziente.

Esso consiste in: 

  1. Laparoscopia diagnostica (esclude presenza di metastasi al di fuori del fegato e quindi evita interventi chirurgici con grandi incisioni in pazienti che non ne possono al momento beneficiare dell’asportazione chirurgica della malattia)
  2. Gestione dell’ittero: a seconda della durata e della gravità dell’ittero, viene valutata la necessità di posizionare un drenaggio biliare percutaneo che detende le vie biliari della parte di fegato che non verrà asportata (quindi drenaggio destro in pazienti candidati ad epatectomia sinistra e viceversa) e contribuisce a migliorare la funzionalità dell’organo in vista del successivo intervento. 
  3. Valutazione del volume di fegato residuo. La possibilità di intervenire chirurgicamente dipende essenzialmente dalla coesistenza di due condizioni: asportazione completa della malattia e preservazione di una quantità di fegato sufficiente per il sostegno delle funzioni vitali nel periodo postoperatorio. Il fegato infatti ha la capacità di rigenerare se stesso ritornando alle dimensioni ed alle funzioni iniziali dopo un intervento chirurgico, ma questo processo richiede alcuni mesi. Il rischio di insufficiente funzione del fegato dopo resezione chirurgica è considerato basso se viene mantenuto almeno il 40% del fegato, moderato per quantità residue di fegato comprese tra 40% e 25%, elevato per quantità inferiori al 25% (queste ultime due condizioni si verificano soprattutto per pazienti candidati ad epatectomia destra). Nei casi nei quali le due condizioni suddette non coesistono, l’asportazione chirurgica può essere riconsiderata mettendo in atto strategie specifiche per incrementare la quantità di fegato da preservare (portoembolizzazione preoperatoria).

A seconda delle caratteristiche del paziente e della malattia (all’esame istologico), dopo l’intervento viene valutata la possibilità di un periodo di chemioterapia o radioterapia (adiuvanti, cioè effettuati dopo l’intervento).

Al termine degli eventuali trattamenti chemio- e radioterapici previsti, il paziente verrà sottoposto a una serie periodica di visite e di controlli strumentali ed ematologici per controllare gli effetti nel tempo delle terapie e per effettuare una diagnosi precoce di un’eventuale recidiva. La pianificazione dei controlli nel tempo viene chiamata follow-up e ha una durata di almeno 5 anni al termine dei quali si suppone che il rischio di recidiva di malattia diventi paragonabile a quello della popolazione generale.

Con il termine prognosi, si indicano i risultati a lungo termine a seguito del trattamento offerto al paziente; si tratta di dati statistici ricavati da diversi studi che osservano l’andamento della malattia in un numero cospicuo di pazienti. Spesso si esprimono le percentuali di sopravvivenza valutate a 5 e 10 anni dall’inizio del trattamento; ciò non significa che il paziente vivrà solo 5 o 10 anni, ma indica la percentuale di pazienti che, nell’ambito di studi condotti su grandi numeri, sono risultati vivi dopo 5 o 10 anni dalla terapia. E’ importante ricordare che queste statistiche sono indicative: nessun medico è in grado di definire esattamente quale sarà l’esito della cura in un singolo paziente o quantificarne la sopravvivenza.

Nel colangiocarcinoma, la prognosi dipende da: stato dei margini di resezione (migliore quando negativi); interessamento linfonodale (migliore in assenza di coinvolgimento linfonodale); variante istologica (migliore per i papillari); grado di differenziazione (migliore per i più differenziati); presenza di metastasi. 
Purtroppo, la maggior parte dei pazienti affetti da colangiocarcinoma ha una prognosi sfavorevole, soprattutto perché buona parte di loro si presenta già al momento della diagnosi con una malattia avanzata; solo il 20-30% risulta candidabile all’intervento chirurgico, che rappresenta, come detto, l’unica possibilità di cura per questo tumore.

Nei colangiocarcinomi extraepatici le percentuali di sopravvivenza a 5 anni variano dal 15-20% al 42% per i tumori localizzati e resecabili, mentre non superano l’1% per quelli metastatici.

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